Come nello scorso week end, anche sabato 14 e domenica 15 l’Associazione Culturale
Hermes Academy Onlus – Arcigay Taranto dedica il ciclo “Cineforum” a Pedro Almodóvar,
il regista più popolare del cinema spagnolo, con la proiezione di due titoli: “Tutto su mia
madre”, “La mala educatión”.
Sabato 14 Giugno, l’Associazione Culturale Hermes Academy Onlus – Arcigay Taranto, a
partire dalle ore 20.00, invita i propri soci presso la sede in Via Oberdan #71, alla
proiezione di “Tutto su mia madre”, film del 1999 scritto e diretto da Pedro Almodóvar,
che, presentato in concorso al 52º Festival di Cannes, ha vinto il premio per la miglior regia.
Seguirà un dibattito. La partecipazione è libera e gratuita. È però necessario prenotare al
+39 346 622 6998.
Vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, “Tutto su mia madre” è una perfetta
fusione di passione per l’arte (a partire ovviamente dal cinema da cui si prende
esplicitamente in prestito il titolo riferendosi a “All About Eve”). È proprio ad un’icona che
Almodovar ama come Bette Davis che il film si ispira, per raccontare quello che in altre
mani sarebbe potuto diventare (avendone in nuce tutte le potenzialità) un melodramma di
bassa caratura. Pedro vi trasfonde (come quella flebo che vediamo in dettaglio in apertura)
tutta la propria sensibilità. Le variabili sessuali di genere non sono per lui un problema,
bensì fonte di ispirazione, che riesce anche a tenere a distanza dall’altro temibile rischio,
quello di un’algida referenzialità cinefila. È un film carico di umanità ma anche di sorprese
quello che Almodovar propone agli spettatori. Si tratta di scoperte che vanno fatte passo
passo insieme a Manuela (interpretata dall’argentina Cecilia Roth), perché ognuna di esse,
anche quella più sopra le righe, apporta una nuova consapevolezza ai personaggi e favorisce
un’empatia con mondi che il regista conosce e ama nella loro complessa contraddittorietà.
Il film inizia a Madrid, con la morte di Esteban, figlio diciassettenne della protagonista
Manuela. Quella sera erano andati entrambi a vedere lo spettacolo teatrale “Un tramchiamato desiderio”. Alla fine della rappresentazione Manuela ed Esteban avevano atteso
all’uscita Huma, la prima attrice, per un autografo. Ma quella notte pioveva a dirotto e la
donna, una volta uscita dall’edificio s’era infilata subito in macchina ed era fuggita via. Allora
Esteban aveva tentato di rincorrere il veicolo, ma era stato investito ad un incrocio.
Dopo la morte del figlio, Manuela decide di partire per Barcellona alla ricerca del padre di
Esteban. La donna aveva da sempre nascosto al figlio l’identità del padre, cosicché il ragazzo
aveva sempre covato nel cuore il desiderio di conoscerlo e incontrarlo. Così, come per
soddisfare l’ultimo desiderio del figlio, Manuela va alla ricerca del suo ex compagno, un
transessuale che vive a Barcellona e si fa chiamare Lola.
Arrivata nella città, la madre ritrova subito una sua vecchia e cara amica, Agrado, anche lei
transessuale, che per vivere si prostituisce. Da quel momento in poi gli avvenimenti e le
storie dei vari personaggi si sovrappongono in modo vorticoso. Manuela conosce Rosa, una
suora destinata ad andare in missione, che si ritrova però sieropositiva e incinta. Il padre del
bambino, con grande sorpresa e dolore di Manuela, è ancora Lola. Agrado, grazie a
Manuela, lascia il marciapiede per lavorare da Huma, come assistente tuttofare. Manuela,
infatti, era riuscita a conoscere Huma e a raccontarle la storia di Esteban.
Anche Huma aveva avuto una storia travagliata: era in ansia per Nina, un’attricetta
tossicomane, con cui aveva intessuto una storia d’amore. Rosa partorirà quindi un bimbo, a
cui darà il nome di Esteban, e che affiderà a Manuela prima di morire. Al funerale di
quest’ultima finalmente compare Lola. Debilitata dall’HIV, subisce il carico dei suoi errori,
fra cui la consapevolezza d’essere padre di un bambino ormai morto e di uno appena nato.Quello che emerge dal film è lo spessore umano dei personaggi principali, che sono tutte
donne. C’è il personaggio principale di Manuela che affronta con coraggio la perdita del
figlio e, come per soddisfare un suo ultimo desiderio, va alla ricerca del padre. La figura di
Rosa, dipinta come un’anima candida, che ha immolato la sua intera vita per il prossimo,
fino a quando non s’innamora di Lola, che l’abbandonerà come ha fatto con Manuela.
Infine Agrado. La figura di Agrado assume vita propria sia come icona del vero e della sua
ricerca, sia come simbolo di un “godimento” solidale, finalizzato principalmente
all’annientamento del dolore, insito nella vita di ognuno. In un suo monologo dichiara che il
suo nome d’arte racchiudeva in sé il suo più grande desiderio: quello di alleviare le
sofferenze altrui, ovvero rendere la vita d’ogni persona con cui entrava in contatto, più
“gradevole” (da qui il nome Agrado).
Durante il film, si respira un clima insolito e, nel contempo, rasserenante. Un’atmosfera
inusuale, in cui ogni eccesso (o evento che nella vita comune, verrebbe interpretato come
tale) è oggetto di livellamento e armonizzazione; un modus vivendi in cui i personaggi
principali accettano ogni avvenimento più tragico con la più ovvia naturalezza e spontaneità.
La donna (o le donne di questo film) è raffigurata come un essere saggio e compiuto che è
ben consapevole del senso e della portata vera della vita. Tutte queste donne piangono,
soffrono e si disperano; ma nello stesso tempo ridono, scherzano e continuano a sognare.
Comprendono tutto e tutto perdonano. Come fa Agrado, all’inizio del film, quando viene
assalita da un suo cliente. Prima si difende, graffiandolo con le unghie e insultandolo per
poi, a pericolo scampato, indicargli una sua amica per farlo medicare. Queste donne
conoscono la sostanza della vera umanità e della tolleranza. Uno stile di vita superiore alla
norma, che ravvisa il risentimento e la sofferenza, ma che impedisce a quest’ultimi di
incancrenirsi e trasformarsi in rancore e odio. Sono donne umili che, alla fine del loro
percorso evolutivo, non giudicano e non condannano. Sono donne che amano la vita e che
sono disposte solamente a vivere. E vivere riesce loro nel migliore dei modi: lo fanno senza
zavorre, con la stessa leggerezza e la stessa intensità dei fuochi d’artificio.
Non ci sono uomini in questo film o, meglio, non ci sono personaggi maschili di spessore.
Forse l’unico personaggio che può essere considerato maschile è Lola. Un uomo che vive e
che ama, ma che lo fa in modo immaturo. Una figura che si fa trascinare dal suo destino,
solo per apprezzarne il lusso e il gusto; che si rifiuta però di fare i conti con le conseguenze
delle sue azioni. Un uomo vile, che non ha neppure il coraggio di affrontare in pubblico ilfunerale di Rosa ma che si accontenterà di viverlo da lontano e in disparte dai gradini di un
colle. Un’altra figura maschile, sebbene solo abbozzata, è il padre di Rosa, affetto però da
demenza senile. Nella sostanza quindi, un uomo che non ha memoria della vita.
Il concetto di donna-madre quindi viene qui assurto a obiettivo supremo cui sia uomini sia
donne possono aspirare. Solamente una donna o un uomo che (secondo quanto esposto
sopra) possa essere definito “donna”, saprà veramente cosa significhi vivere e potrà essere
madre. Potrà, cioè, vivere “senza zavorre” ed elargire esempi di vita vera.
Emblematica è la dedica con cui il regista chiude il film: «A Bette Davis, Gena Rowlands,
Romy Schneider… A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano,
agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere
madri. A mia madre»
In questo film, la trasgressione viene letta e reinterpretata in modo innovativo e audace.
Ogni eccesso viene rilevato, studiato e mostrato al pubblico non più come effetto ultimo di
un disturbo, o squilibrio. Viene descritto e raccontato nell’istante stesso della sua genesi. In
questo modo, partendo dalle cause (e non più dagli effetti) che hanno dato vita a quel
comportamento, le conseguenze appaiono più naturali e consonanti con il fondo
dell’identità individuale in oggetto. Almodóvar ribalta, soprattutto con il personaggio di
Agrado, il modo di leggere e interpretare sia le diversità che i cosiddetti “eccessi”,
redimendo gli outlier di qualunque dimensione esistenziale, attraverso un’umanizzazione
della trasgressione tout-court e una riabilitazione del vecchio adagio, secondo cui, “non
bisogna mai giudicare ciò che non si riesce a comprendere nella sua interezza”.