Il ricordo di un grande magistrato nelle parole della sorella, autrice del libro “Giovanni Falcone, un eroe solo”. Non c’è un italiano che non ricordi quel tragico pomeriggio di sabato 23 Maggio 1992, in cui persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta Vito Schifani, Rocco di Cillo, Antonio Montinaro. “L’attentatuni”, una vera e propria azione di guerra, fu realizzato collocando 500 chilogrammi di tritolo sotto una galleria di scolo, del tratto autostradale collegante l’aeroporto di punta Raisi a Palermo, nei pressi del comune di Isola delle femmine, fatti brillare con un radiocomando da un squadra di mafiosi appostati su di un’altura. L’azione devastante atterrì l’Italia, tanto da indurre la società quanto le Istituzioni ad adottare una reazione risoluta ed intransigente contro l’organizzazione criminale denominata mafia. In tutti questi anni molti libri hanno raccontato l’encomiabile opera compiuta da Giovanni Falcone, del suo amico fraterno e collega Paolo Borsellino. Ricordiamo, a tal proposito, “ I miei giorni a Palermo” di Antonino Caponnetto, ultimo capo del pool antimafia di Palermo, sotto la cui guida ebbe luogo il primo Maxi processo all’organizzazione criminale mafiosa, che, insieme ad altre opere, ha avuto il merito di spiegare e diffondere la conoscenza del fenomeno. “Giovanni Falcone, un eroe solo”, il nuovo libro pubblicato in Aprile per i tipi della Rizzoli, scritto da Maria Falcone insieme alla giovane giornalista esperta di mafia, Francesca Barra, è qualcosa di più di una biografia, é il ricordo struggente e drammatico degli episodi di vita del grande magistrato, narrati con la particolare unicità dell’amore fraterno. Amore è il sentimento che pervade le duecento pagine di questo libro. E’ dolcissima l’amorevolezza con la quale i genitori attendono Giovanni unico figlio maschio, “Biddicchiu” (bellino in dialetto siculo), come fu poi soprannominato dal papà, quanto quella di Maria, che, ricordando il giorno della nascita del fratello, rivela l’evento particolare che lo contrappunta, allorquando una colomba bianca intrufolatisi nella stanza incomincia a svolazzare intorno alla culla del neonato. E’amore quello del Papà, che in punto di morte attende di rivedere per l’ultima volta il suo Biddicchiu, per poi chiudere definitivamente gli occhi. E’amore quello che ci mostra Giovanni nella sua prima esperienza matrimoniale, finita anticipatamente. E’amore per la propria famiglia quello che lo vede impegnato a non far trasparire alcuna preoccupazione, quando vede cadere sotto il piombo mafioso amici fraterni (come il commissario Ninni Cassarà) e collaboratori, e sdrammattizza le preoccupazioni della sorella rispondendo con un “si vive una volta sola nella vita”. E’ amore per Francesca, quello che lo risveglia alla vita, e lo porta anche a pensare di lasciarla definitivamente per salvarla dalle vendette mafiose, la quale per amore farà la sua stessa atroce fine. Sono manifestazioni d’amore le parole con le quali giovani colleghi collaboratori, rievocano il suo “spirito di servizio” nello svolgere il lavoro, la meticolosità, l’intelligenza e l’intuito. E’ sua la geniale introduzione nelle indagini del “Follow the money” (seguire le tracce del denaro), che inevitabilmente le operazioni finanziarie mafiose lasciavano presso istituti di credito compiacenti. Maria ce lo mostra alle prese con centinaia di assegni posti su ogni superficie dei mobili del salotto di casa dei genitori, intento nello studiare le girate di trasferimento dei titoli stessi. Amore e stima quello che porta Louis Freeh, Direttore dell’FBI,suo amico e collaboratore ai tempi delle indagini su Cosa Nostra negli anni Ottanta, a dedicargli un monumento nell’Accademia del Servizio Segreto di Quantico nei pressi di Washinghton negli Stati Uniti. Ma la vita di Falcone non è stata per nulla un trionfo, Maria ci narra le amarezze che il Magistrato ha dovuto subire sia sul piano degli affetti che sul lavoro. Un uomo tanto amato e contemporaneamente lasciato solo nelle battaglie più importanti della sua carriera professionale. I ricordi di Maria spaziano
delle amarezze provate da Giovanni quando una volta resi pubblici i diari di Rocco Chinnici, suo diretto superiore e capo dell’ufficio istruzione di Palermo ucciso da autobomba nel 1983, una certa stampa strumentalizzò il senso degli scritti per discreditarlo. Le accuse di essere troppo “amico” del boss mafioso Tommaso Buscetta, primo importante collaboratore di giustizia, sulle cui rivelazioni si poté imbastire tutto l’impianto del maxi processo. Lo si caricò anche del sospetto di aver organizzato lui stesso il fallito attentato alla villa al mare dell’Addaura, tanto da fargli pronunciare una frase drammatica e amara in occasione di un intervista data a Corrado Augias: “Questo è il Paese felice in cui , se ti si pone una bomba sotto casa, e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere”. E poi la mancata nomina a Consigliere Istruttore a favore di un altro magistrato che riscosse il “merito” di smantellare il pool antimafia. Ancora, una delusione per la mancata nomina all’Alto commissariato per la lotta alla mafia. L’ennesimo torto inflittogli dal Consiglio Superiore della Magistratura, che lo preferì a Agostino Cordova alla guida della Procura Nazionale Antimafia, un’organismo di coordinamento egli stesso ideato e normato. Il tempo sicuramente, ci darà risposte sul perché Falcone sia stato lasciato da solo. Ancora oggi sul suo assassinio (come in quello di Paolo Borsellino) ci sono delle verità nascoste e, riteniamo, terrificanti, proprio per il sospetto di connivenza tra politica, organizzazione criminale e pezzi di deviati dello Stato, la famigerata “trattativa” tra Stato e Mafia che, pare, fosse già iniziata ancor prima dell’ inizio della stagione delle stragi. Le indagini riaperte dopo venti anni di ritardi e depistaggi ne sono conferma. E’ l’ennesima Italia dei misteri. Chiudiamo con le parole pronunciate da Paolo Borsellino il 23 Giugno 1992,(riportate fedelmente da Maria Falcone), in occasione del trigesimo della morte di Giovanni, condannando chi l’aveva accusato di aver lasciato Palermo per diventare direttore degli affari penali al Ministero della Giustizia: “..Non fuggì. Tentò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le condizioni ottimali per il suo lavoro. Per poter continuare a dare. Per poter continuare ad amare. ….” . Un’altra dichiarazione d’amore fraterno. Ventisette giorni dopo, in via D’Amelio a Palermo, moriva assieme a cinque poliziotti di scorta. Tutti dilaniati da un autobomba.