Io, Araba fenice è un romanzo di formazione sotto forma di diario, come scrive Raffaele Nigro nella partecipata presentazione, in cui è narrata la vita di una araba fenice, nella fattispecie tutt’altro che mitologica, abbattuta dal cancro e rinata dalle ceneri di un io riscritto, rimodellato, riplasmato. Un diario di bordo drammatico e nel contempo di grande speranza per tutte le donne, qualora avessero la fortuna di incontrare gli occhi rari e infiniti dell’Autrice.
Stefana Giancane registra l’insorgenza della malattia, l’intervento chirurgico, le cure di protocollo; similmente alla Fallaci, del male annota: “Lo sento strisciare come un serpente dentro di me, ma voglio cacciarlo via per sempre senza combattere una guerra”. Appena dopo, con una ironia dalla forza “straniante”, scrive che essendo stato generato dal suo corpo deve con quel male essere magnanima, ammettendo “che tutti posso commettere errori”. Sicchè narra dell’intervento, della violazione del proprio corpo, della cura, con una famiglia (Daniele, Lella, Maurizio) straordinaria piegata sull’autrice, tutti a nascondere tra le pieghe dell’animo la sofferenza per una tragedia inaspettata. Inoltre, la scrittrice barese annota gli ambienti di cura, gli incontri di uomini, infermieri, medici, ognuno a giocare un ruolo nel ricreare la fiducia per continuare ad amare la vita.
Intensa, leggera, potente è la narrazione della caduta dei capelli, consequenziale alla cura: “Insieme ai capelli a cui la vita mi aveva abituata, perdo l’idea che ho del mio volto e quella con cui vivo nel mondo” . La calvizia è il metronomo dell’inizio di una nuova vita, di un essere altro, di una identità che si riscrive.
Dopo i labirinti attraversati, giunge con le analisi il referto negativo, tanto agognato, così si sdipana una narrazione che è un concentrato di attese, proiezioni future, corporeità.
Poi la malattia del padre, conseguenza delle pene silenziose: “Il cuore di papà si è trovato a gestire e a soffocare per mesi un flusso ininterrotto di paura e dolore e si è messo a correre dispettoso!
Questi incidenti fortificano nell’autrice l’idea, che il corpo si ammala come conseguenza di una malattia dell’animo. Indeboliti sul piano affettivo il corpo diventa vulnerabile. Vi è insomma un rapporto diretto tra amore, corpo e malattia.
Il diario si chiude col doppio lieto fine: la guarigione del papà e la partenza della protagonista per Londra, segno inequivocabile, anche, di un rituffarsi nella fisicità della vita.
Un diario della sofferenza in cui si registrano gli stati d’animo provocati dal male, con un registro narrativo di raffinata letterarietà, l’esperienza umana qui è trasformata in bellezza, e così fruita dagli altri. Un diario straziante per molti aspetti, intenso, eppure di un dolore leggero, come se le immagini narrate stessero in una campana e avvolte dalla sordina. Il dolore si consegna al mondo attraversa il filtro dell’arte; alcuni passaggi narrativi, infatti, hanno un’alta perizia formale, specialmente quando Giancane si sofferma sulle immagini paesaggistiche che altro non sono che un correlativo oggettivo, attraverso il quale misurare la vita nella sua caducità e nel contempo nella sua possibilità /ricchezza.
La parola dell’autrice esplode e si frantuma in tante luminescenze in cui si specchiano volti, situazioni, paesaggi, ma ogni cosa è avvolta da un alone vitale, da una esigenza prorompente di vita. Si vuol dire che nonostante le malattie, i sogni infranti, le metamorfosi…, vi è una forza positiva che propende per la vita.
L’insegnamento di queste pagine, infine, spingono alla resilienza, ad essere eroici nell’affrontare la vita, credere nella prevenzione e tirare tutto il meglio di sé di fronte alle difficoltà, senza abbattersi, per trovare un altro modo di essere protagonista nel mondo.
Cosimo Rodia
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